venerdì 29 giugno 2012

La letteratura, l'arte e la realtà sociale.


Non so per chi si scriva realmente. Se si scriva per sé stessi o per gli altri.
Non sono mai stato capace di dirlo, di chiarire questo punto.
Io dico che scrivo per me stesso ma forse per essere ascoltato da qualcuno che non conosco.
Se fossi capito realmente dalle persone che conosco probabilmente non scriverei una sola parola.
Ed invece è il bisogno e l’ansia di trovare persone che ascoltino che spingono alla scrittura.
Forse la scrittura è un appello, un proclama primitivo all’adunata.
La scrittura è un lancio di pietre nel mucchio con un senso di sfiducia nel genere umano.
Pietre che nessuno raccoglierà e che molti schiveranno, pietre che si ammasseranno per terra senza forma e senza senso. Eppure pietre di cui chi scrive ha bisogno di disfarsi perché troppo ingombranti.
O forse pietre che non appartengono a chi scrive e sono a lui capitate solo per sorte o per maledizione.
Il genere umano non sa parlare mai nel modo giusto. Quando si parla le parole che riusciamo ad esprimere solo al massimo il venti per cento di quelle che vorremmo usare e le emozioni che vorremmo condividere non sono neppure la più piccola parte di quelle che abitano dentro di noi.
Non è allora forse solo il senso di solitudine profonda che spinge a scrivere ma anche il desiderio di una liberazione da una condanna. Non credo che lo scrittore sia altruista per definizione: è anzi un perfetto egoista, un crudele carnefice che costringe chi ha la sfortuna di leggerlo a subire le stesse pene e le stesse espiazioni che egli sta vivendo.
La letteratura è sempre un viaggio verso il buio, non è mai un salto verso il bene, verso la felicità. La letteratura è il salto nel precipizio.
Io adoro scrittori come Dostoevskj e Simenon perché rappresentano il buio, quello che non si dice. E non hanno pietà o compassione e neppure condanna per i loro personaggi. I loro personaggi sono quelli che tutto il genere umano, in fondo, è: né buono né cattivo, né carne né pesce. Solo un insieme enorme di persone che vivono cercando di trovare un equilibrio tra la luce della socialità con le sue chiare regole umane e il buio interiore che si illumina della libertà massima del trasgressore, del ladro, dell’assassino.
Capire la letteratura è molto difficile se mai si è provato, almeno una volta, ad essere scrittori. Essere scrittori significa affrontare quel buio con le proprie mani, buttarsi a testa in giù nel laido paesaggio sottostante tutte le nostre convenzioni e le nostre convinzioni morali.
La letteratura sovverte perché descrive il mondo di sotto o l’altro lato della luna. Un mondo che fa, comunque, sempre parte delle nostre giornate e che vive silenzioso durante le lunghe ore di lavoro o di comune vivere sociale.
Creare un personaggio è, dunque, consentire una piena vita a questo mondo perché significa rappresentare il vero nella sua più profonda essenza: descrivere la mancanza assoluta sia del bene sia del male. Lo scrittore deve, infatti, essere equidistante, mantenersi imparziale come un giudice. Come il giudice non pratica mai le leggi della morale, si disinteressa dei profili etici di una vicenda e si limita ad applicare la “legge”, allo stesso modo lo scrittore veramente onesto non può parteggiare, non può creare un mondo di buoni e di cattivi. Lo scrittore profondamente onesto deve solo applicare la legge della scrittura che impone soltanto di dire fedelmente la verità e di rappresentare realmente come sono andate le cose nella storia che racconta.
Lo scrittore è come il giudice: non può essere un moralista. Può solo ed accertare e raccontare ed applicare una legge. 
Il contributo dello scrittore ad una costruzione morale del mondo non passa mai attraverso l’adesione ad un progetto morale preesistente e l’applicazione delle regole etiche che il mondo già esistente per sé seleziona e sceglie di praticare.
Lo scrittore porta avanti un’opera ed un intervento di completamento e ridefinizione delle regole morali perché destruttura le regole morali secondo i codici del mondo letterario che sono rappresentativi di verità fuori dalle regole morali stesse della società umana. La letteratura, infatti, è veramente e profondamente libera proprio quando riesce a rifiutare pienamente e con coraggio le regole morali già praticate nel vivere umano e le sovverte o le re-individua o persino le abiura del tutto.
Il rapporto letteratura - realtà sociale non deve essere, in definitiva, di mera rappresentazione della realtà sociale. La realtà letteraria, ed artistica in generale, è una realtà enormemente più ampia di quella sociale che in essa, in altre parole, è contenuta.
Non si tratta, dunque, di parlare di una fuga dalla realtà: la realtà, al contrario, è contenuta essa stessa nell’arte e nella letteratura la quale non può essere sottomessa alle regole di quel mondo sociale bensì è soggetto che liberamente quelle regole può dominare, plasmare, cambiare.
La libertà ed il senso dello scrivere, della letteratura, dell’arte derivano dal fatto che, per fortuna, tutte queste cose non fanno parte della realtà sociale, che è una realtà strutturalmente parziale e della cui parziarietà le regole morali e giudiriche sono sempre, inevitabilmente, espressione.
Il senso, il vantaggio, l’utilità dell’arte, della letteratura, dello scrivere risiedono nel fatto che tutte queste cose sono la realtà stessa in cui è contenuta la più piccola e ridotta realtà sociale.
La realtà umana invece è sempre un fatto più grande, più ampio e complesso della realtà sociale, nella quale noi viviamo proprio nel solco delle regole morali e giuridiche.
Quelle regole non hanno, però, più alcun senso una volta aperti i confini della letteratura e dell’arte.
Si scrive per uscire dalla realtà sociale perché questa realtà non potrà mai essere sufficiente per vivere.     

mercoledì 27 giugno 2012

La fiaba del lupo libero (da "Educazione siberiana", Nicolai Lilin)


… Per farmelo entrare nella zucca mi raccontava spesso una fiaba siberiana, una specie di metafora, il cui senso era proprio la perdita di dignità degli uomini che seguono una via sbagliata, attirati da falsi benefici. Quella fiaba parlava di un branco di lupi che erano messi un po’ male perché non mangiavano da parecchio tempo, insomma attraversavano un brutto periodo. Il vecchio lupo capo branco tranquillizzava tutti, chiedeva ai suoi compagni di avere pazienza e aspettare, tanto prima o poi sarebbero passati branchi di cinghiali o di cervi, e loro avrebbero fatto una caccia ricca e si sarebbero finalmente riempiti la pancia. Un lupo giovane, però, che non aveva nessuna voglia di aspettare, si mise a cercare una soluzione rapida al problema. Decise di uscire dal bosco e di andare a chiedere il cibo agli uomini. Il vecchio lupo provò a fermarlo, disse che se lui fosse andato a prendere il cibo dagli uomini sarebbe cambiato e non sarebbe più stato un lupo. Il giovane lupo non lo prese sul serio, rispose con cattiveria che per riempire lo stomaco non serviva a niente seguire regole precise, l’importante era riempirlo. Detto questo, se ne andò verso il villaggio. Gli uomini lo nutrirono coi loro avanzi, e ogni volta che il giovane lupo si riempiva lo stomaco pensava di tornare nel bosco per unirsi agli altri, però poi lo prendeva il sonno e lui rimandava ogni volta il ritorno, finché non dimenticò completamente la vita di branco, il piacere della caccia, l’emozione di dividere la preda con i compagni.
Cominciò ad andare a caccia con gli uomini, ad aiutare loro anziché i lupi con cui era nato e cresciuto. Un giorno, durante la caccia, un uomo sparò a un vecchio lupo che cadde a terra ferito. Il giovane lupo corse verso di lui per portarlo al suo padrone, e mentre cercava di prenderlo con i denti si accorse che era il vecchio capo branco. Si vergognò, non sapeva cosa dirgli. Fu il vecchio lupo a riempire quel silenzio con le sue ultime parole:
“Ho vissuto la mia vita da lupo degno, ho cacciato molto e ho diviso con i miei fratelli tante prede, così adesso sto morendo felice. Invece tu vivrai la tua vita nella vergogna, da solo, in un mondo a cui non appartieni, perché hai rifiutato la dignità di lupo libero per avere la pancia piena. Sei diventato indegno. Ovunque andrai, tutti ti tratteranno con disprezzo, non appartieni né al mondo dei lupi né a quello degli uomini … Così capirai che la fame viene e passa, ma la dignità una volta persa non torna più”.

giovedì 31 maggio 2012

Volere la libertà

Liberi da ogni morale, da ogni regola. Liberare il corpo, la mente. La pura libertà è nella capacità di desiderare di essere liberi. Non avere limiti. Pensare ai limiti come ostacoli all'essere veramente liberi. Non avere pregiudizi, non avere schemi o preclusioni. Ritrovare un senso anche in ciò che non piace. Avere la voglia di diventare grandi, di crescere. Non avere mai paura di cambiare, di fare o diventare altro. Essere felici per quello che ancora non si è fatto. Fremere dalla voglia di affrontare una nuova sfida anzichè desiderare, per paura, di ritornare a casa. Vedere i sentimenti non come un rifugio ma come una palestra dove diventare più forti, più consapevoli, più grandi. Non dare limiti alla possibilità di apprendere dagli altri, qualunque veste portino. Avere l'idea del mondo non come qualcosa che ci appartiene ma come qualcosa che abitiamo casualmente e che possiamo migliorare. Pensare che le regole sociali ed il diritto sono utili solo nei limiti in cui rendano felici gli uomini. Desiderare la giustizia come strada per consentire a chiunque di realizzare il proprio desiderio di libertà. Amare il fatto di essere vivi per il fatto stesso di avere ancora un giorno davanti per lavorare ad un nuovo sogno. Non avere voglia di dormire se non per raccogliere le forze per ricominciare a camminare. Non avere paura di restare soli. Chi riesce a sognare ed essere veramente libero può riuscire a condividere con il mondo persino la propria solitudine. Il mondo è troppo grande per una vita sola ed i problemi troppo ridicoli per allontanare la voglia di esplorarlo tutto, fino alla fine dei giorni.

lunedì 28 maggio 2012

Filosofia del rifiuto (E. Flaiano)

Agire come Bartebly lo scrivano. Avere sempre una preferenza per il no. Non rispondere a inchieste, rifiutare interviste, non firmare manifesti, perché tutto viene utilizzato contro di te, in una società che è chiaramente contro la libertà dell'individuo e favorisce però il malgoverno, la malavita, la mafia, la camorra, la partitocrazia, che ostacola la ricerca scientifica, la cultura, una sana vita universitaria, dominata dalla Burocrazia, dalla polizia, dalla ricerca della menzogna, dalla tribù, dagli stregoni della tribù, dagli arruffoni, dai meridionali scalatori, dai settentrionali discesisti, dai centrali centripeti, dalla Chiesa, dai servi, dai miserabili, dagli avidi di potere a qualsiasi livello, dai convertiti, dagli invertiti, dai reduci, dai mutilati, dagli elettrici, dai gasisti, dagli studenti bocciati, dai pornografi, dai poligrafi, truffatori, mistificatori, autori ed editori. Avere come preferenza assoluta il rifiuto, ma senza specificare la ragione del tuo rifiuto, perché anche questa verrebbe distorta, annessa, utilizzata. Rispondere: “I would prefer not to”. Non cedere alle lusinghe della televisione. Non farti crescere i capelli, perché questo segno esterno ti classifica e la tua azione può essere neutralizzata in base a questo segno. Non cantare, perché le tue canzoni piacciono e vengono annesse.Avere preferenza per il no. Non adunarti con quelli che la pensano come te, migliaia di preferenze negative isolate sono più efficaci di milioni dipreferenze negative in gruppo. Ogni gruppo può essere colpito, annesso, utilizzato, strumentalizzato. Alle urne metti la tua scheda bianca sulla quale avrai scritto: “I would prefer not to”. Sarà il modo segreto di sentirti definitivamente serenoe forse quelli del “sì” cominceranno a chiedersi che cosa non viene apprezzato nel loro ottimismo.

I volti nuovi di Palermo

Avevo svolto queste considerazioni prima delle elezioni, a bocce ferme.
Adesso le pubblico a competizione elettorale conclusa.


Il momento del voto per Palermo sarà un momento determinante per i prossimi anni nella vita di questa città. 
E', forse, il momento di unire davvero le divisioni, gli antagonismi culturali, le appartenenze e gli interessi personali per guardare in modo sistemico la realtà in cui viviamo.
Palermo è una città senza cuore, senza teste, senza identità. Questo è noto. E' una città nella quale ogni incarico od ogni scelta di partito segue logiche di parentela, di affinità, di corruzione, di clientelismo. E' una città senza spina dorsale, senza dimensione collettiva perchè è una città non-città dove oguno si sente padrone del proprio pezzo di terra e, al contempo, accetta serenamente di vivere in un luogo che non è, in realtà, di nessuno. In questo modo, in questa prospettiva le cose pubbliche diventano oggetto di uso privato quando il privato è più forte e può trarre da queste vantaggi (appalti, nomime, consulenze, incarichi prestigiosi); le cose private si confondono con quelle pubbliche quando chi detiene queste cose private le detiene proprio in virtù del proprio ruolo pubblico, del proprio pezzo di potere, del proprio pezzo di città riconvertita a proprietà privata. Allo stesso tempo, quando una cosa è pubblica ma non dà vantaggi bensì solo problemi, essa è lasciata al suo destino di declino. La città è sommersa dai rifiuti, la città è in mano alla corruzione ed alla mafia ma i palermitani continuano a pensare che, in fondo, questo non sia un problema loro, proprio perchè questa parte - negativa, svantaggiosa - della città non li riguarda in quanto non è di loro proprietà. Ed allora in questo gioco confuso in cui cose pubbliche e cose private in questa città si scambiano i ruoli costantemente ed in modo reciproco le elezioni diventano il momento in cui, forse in modo particolarmente banale ed evidente, si consolidano le alleanze per le prossime contrattazioni tra cose pubbliche e cose private. Penso già in questo momento a quelli che in questa città un posto sicuro ed intoccabile lo hanno trovato, grazie ad influenze, amicizie, accordi. Queste persone diranno che non bisogna stupirsi della negoziazione pubblico-privato e faranno vedere, al contempo, con ironia e superficiliatà che non bisogna mai stupirsi perchè non si sa mai abbastanza di come vanno realmente le cose. Ma quale è il livello massimo dello stupore? Fa ridere vedere che in questa città la competenza non ha peso e che, cambiando i nomi ed i tempi, la pratica è sempre quella della cementificazione di gruppi più o meno piccoli di potere sociale? Fa ridere vedere che non c'è nessuna serietà da parte di rampanti candidati nel proposta dei futuri amministratori della nostra città in caso di esito positivo alle consultazioni elettorali? Fa ridere accorgersi che non c'è nessun rispetto e nessun limite al tentativo di far accettare come normali cose che normali non sono? Fa ridere vedere che in questa città se prendi una qualsiasi zucca vuota e gli metti una giacca ed una cravatta in un attimo, per magia, con tale solo processo di vestizione tale soggetto diventa esperto in qualcosa e pronto a fronteggiare seriamente le sfide che l'amministrazione di questa città avrà di fronte già dai prossimi mesi? No, noente di tutto questo fa ridere. E' tutto tremendamente vero ed è tutto tremendamente serio perchè fa sorgere un senso di inesorabilità, di vincolatività, di impotenza che certamente affligge chiunque abbia l'onestà di esaminare le cose nel profondo. Non ragiono per colori, non investo su uno schema ideologico. Cerco, come tutti, di osservare, leggere fra le righe e mettere anche le mie idee in discussione. Penso, tuttavia, che alla tolleranza ed al rispetto delle scelte e delle idee degli altri ci siano dei limiti che sono imposti, in primo luogo, del rispetto verso sè stessi e, nel caso specifico, verso il senso di vivere in un luogo anzichè in un altro. Vivere in un luogo non è solo abitare una casa, comprare il pane, pagare le tasse, buttare la spazzatura, prendere un autobus, vedere una mostra, passeggiare in una strada illuminata, sedersi alla panchina del giardino pubblico. Vivere in un posto significa sviluppare un senso forte di appartenza e di comunità verso tutte queste cose banali e verso il luogo in cui esse si sviluppano. Dare un senso a questo, non sentirsi estranei in casa propria impone di non subire tutto quello che accade come inevitabile, impone di non accettare tutte le lezioni su come funziona questa realtà che vogliono darci proprio tutti quelli che non hanno nessun interesse per il bene comune e che mirano solo a giustificare il sistema dele clientele per legittimare le proprie personali clientele, presenti e future. Cambiare la politica non è candidare persone giovani in quanto giovani. Cambiare la politica è selezionare persone capaci, dare valore alla competenza, al merito, alla storia di una persona. Tuttavia, continuo a vedere che questa città non impara nulla, non ha memoria della propria storia. Andando di questo passo tra vent'anni ci proporranno i nipoti delle dinastie di famiglie ed individui che da sempre continuano a gestire -malissimo - le sorti di questa città. Bisogna votare e proporre gente nuova. Non nuovi figli e nipoti ed amici di gente vecchia.
Andando più nello specifico, voglio dire due parole su una vicenda che mi sta molto a cuore: la vicenda Orlando. Benché rispettoso della buona fede di quelli che lo sostengono e che lo voterrano, mi sembra chiaro che questa discesa in campo farà il gioco - proprio in termini banalmente numerici - della coalizione che ha dsitrutto questa città per dieci anni e che, adesso, per lavarsi colpe e responsabilità, sa solo prendere le distanze da un solo uomo - Diego Cammarata -, come fosse unico centro di imputazione del dissesto che è sotto gli occhi di tutti. Il monento del cambiamento è adesso e questo è il momento in cui le divisioni, le diversità ideologiche e culturali andrebbero poste da parte per assumersi la responsabilità del futuro. La crisi ci travolge e la nostra città è sul punto del non ritorno da molto tempo. E' necessario uno scatto di orgoglio e di senso di responsabilità. E soprattutto è necessario non ascoltare, almeno in questi mesi, i Soloni ben vestiti, furbetti e sorridenti che vogliono sempre insegnarci la lezione, che vogliono dirci che non capiamo niente, che "se sapessi quello che fanno a sinistra" etc. etc. etc. solo per legittimare una situazione culturale che, sicuramente, fa comodo a pochi e non crea benessere diffuso ma solo consolidamento di uno stesso identico establishment. Io non amo essere preso per il culo ed a Palermo ogni volta che spunta una faccia giovane non basta mettere giacca e cravatta per dire che si sta cambiando la politica. Ci vuole onestà intellettuale e senso di responsabilità. 
Questo non vuole essere uno spot elettorale per una parte, soprattutto perchè - come direbbero ancora i Sololni che tutto sanno e tutto vedono - io sicuramente, come tanti, cado nel gioco delle asimmetrie informative. In tutta onestà, penso che non votare Ferrandelli a queste elezioni significhi solo non ricordarsi degli anni che abbiamo vissuto finora, non rendersi conto di come il centro-destra abbia ridotto la nostra città, non avere interesse di ciò che potrebbe accadere oppure significa, per alcuni, avere vantaggi concreti da un esito elettorale diverso. La storia di un posto può cambiare, soprattutto quando - come dice un vecchio ritornello - più scuro di mezzanotte non può fare.
E, tuttavia, onestà ne vedo davvero poca in giro. Ma davvero pochissima.

La nostra famiglia


La nostra storia, il nostro passato, i nostri ricordi.
Nostro padre e nostra madre. Il fratello, la sorella.
Quello che siamo stati, quello che siamo, quello che verrà.
Le strade percorse, i sogni, i momenti, i compleanni, le morti, le giornate allegre, le giornate senza senso, le giornate ancora una volta tristi.
E poi la speranza, quella volontà di stare uniti, di crescere insieme. Nonostante tutto, quel bisogno vero, profondo di voler stare ancora tutti insieme.
La parola famiglia, la parola amore, la parola valore.
Quelle cose che hanno un senso e che ci tengono in piedi, che ci hanno sempre difesi dalla tempesta e non hanno fatto sembrare la nostra una nave che poteva affondare.
Gli alberi che abbiamo costruito, la casa dove abbiamo giocato da piccoli e dove abbiamo pianto.
Le stanze che ci hanno tenuto per mano.
Le finestre che guardavamo insieme, le passeggiate che volevamo fare tutti insieme e che alcune volte siamo riusciti a fare.
Le parole, le parole che volevamo dire e che ancora abbiamo tenuto dentro.
Tutto l'amore che ognuno di noi, a modo suo, ha.
Le nostre foto, le spiagge ed i monti, le macchine, i viaggi, i pomeriggi e le notti.
Tutti quegli anni passati insieme che sono ancora nostri e che nessuno ci potrà rubare.
Tutti gli abbracci che non abbiamo perduto perchè ci sentivamo veri e ci sentivamo forti se ci accarezzavamo.
E, in fondo, eravamo felici quando eravamo tutti insieme perchè lo abbiamo sempre profondamente voluto.
I minuti che passavano svelti tra mille cose che ci tenevano lontani.
Tutte le volte che non abbiamo capito e siamo stati zitti per paura di sbagliare.
Tutte le volte che non abbiamo trovato le nostre vocali nei nostri pensieri.
Ci siamo sentiti lontani, forse anche perduti, a volte, ma sapevamo che potevamo tornare da dove eravamo partiti.
Perchè è lì che vogliamo tornare: alla casa dove tutto ha avuto inizio e dove tutto, per noi, non avrà mai fine.
Quella prima casa dove l'amore non morirà ed i ricordi saranno le anime immortali di tutto l'amore che abbiamo vissuto nel privilegio unico di stare insieme.
Questo saremo noi quando nulla sarà più: le anime che torneranno alla casa dove ci siamo amati, le onde inquiete che continueranno a stare insieme nel grande mare, le foglie che poseranno, ciascuna, nel riposo della stessa dimora.
La casa che per prima ci ha accolto e da cui, in realtà, non siamo mai andati via. 
Non succederà nulla di triste e di brutto nella nostra vita.
Non potrà il mondo mai vincere l'amore che nasce dalla verità.
Non ci separeremo mai perchè possiamo solo stare uniti.
E alla fine tutto avrà un senso: aver vissuto per come avevamo realmente sognato, essere liberi di amare fino in fondo, vivere della più pura libertà in cui l'altro non ha mai smesso di amarci, lì dalla parte più nascosta dell'anima.
Quando tutto, un giorno lontano, sembrerà volgere alla fine resteranno la casa, le macchine, gli oggetti che ci hanno accompagnato e che hanno testimoniato il nostro passaggio.
E resterà il mondo a ricordare del nostro amore, dell'amore della nostra famiglia che è stata vera fin da principio e che non ha avuto fine perchè ha vissuto, fino in fondo, nell'amore.
Nulla dell'amore finisce, solo il corpo si dissolve.
L'amore si trasmette nel ricordo di chi resta e rinasce ancora in nuove forme, nella vita nuova che verrà.
Le anime che sono state uniti per la vita non si separeranno.
Non aver mai paura della fine perchè la fine, davvero, non arriverà.
Staremo sempre insieme anche quando ci sentiremo lontani.
E torneremo da principio dove tutto era cominciato, nella casa che generò la vita e che la nostra vita elesse come proprio luogo della memoria.
Ricomincerà la nostra vita, bella per come è già stata e per come, nell'amore, diventa sempre più bella adesso.
Perchè il nostro amore, l'amore della nostra famiglia, non ha fine e non ha confini.
E' un amore vero che seguirà ognuno di noi in ogni angolo del mondo, in ogni singolo momento del tempo. 

venerdì 17 febbraio 2012

Le responsabilità dell'artista

L'artista scrive, parla, pensa, compone in libertà tutto quel che gli pare, tutto quello che sente necessario.

Non devono nemmeno pensarsi limiti all'arte perché ciò sarebbe una contraddizione di sé stessa. L'arte consente, infatti, di superare i limiti: i limiti culturali, sociali, economici, spaziali, temporali. L'arte è, per definizione, illimitata. L'arte è un concetto generale.

Il problema, dunque, non è nella possibilità di pensare l'arte come qualcosa di limitabile o controllabile. Il problema è pensare se l'arte e gli artisti possano avere responsabilità di quel che dicono o fanno.

Già a livello penale, l'idea più in generale di fattispecie di illecito create sulla dimensione della libertà di opinione trova molte difficoltà: pensiamo in Italia al dibattito sulla possibilità di concepire il negazionismo come reato (fattispecie, peraltro, esistente nell'esperienza tedesca e francese) ma pensiamo anche alla libertà di critica o di cronaca o anche a quella di satira nei rapporti con il delitto di diffamazione.

Ma l'arte certamente ha un contenuto intrinseco che va al di là di una mera libertà di espressione o di opinione. L'arte e l’espressione artistica sono un concetto già preliminare all'idea di una libertà di manifestazione del pensiero perché, contenendo un pensiero o un'idea costruiscono e fanno vivere l'idea od un pensiero come un corpo separato, vivente, esistente che, in qualche modo, vive e si trova presente nel mondo senza più appartenere al proprio autore.

Sebbene esista una disciplina che tutela il diritto di autore questa disciplina sembra rivolta a tutelare primariamente l'autore ed i suoi diritti di rivendica patrimoniale sull'opera non a tutelare, se non indirettamente, l'opera come cosa esistente in maniera autonoma.

Tutto questo può essere probabilmente smentito da esperti del settore - che probabilmente ne capiscono più di me - e, tuttavia, dato ciò per assunto, mi viene allora un dubbio: possiamo considerare gli artisti responsabili delle conseguenze positive o negative che le loro opere producono?

Diceva Guccini che con le canzoni non si fan rivoluzioni però esiste tutta una discografia che ha vissuto e proliferato anche grazie al parallelismo con le lotte del '68 e ci sono gruppi, come i Rage against the machine, che hanno fatto della lotta no-global il proprio simbolo di identità.

Resta un po’ ambigua la posizione di molti artisti su ciò che le canzoni, le opere, i film da loro prodotti sono in grado di produrre e, dunque, sul profilo del merito (in caso di effetti astrattamente positivi) o della responsabilità (in caso di effetti astrattamente negativi).

Certo, possiamo negare il discorso a monte e dire: non c'è un problema di responsabilità degli artisti. L'arte deriva da un diritto fondamentale e, come tale, resta libera rispetto alle sue conseguenze.

Possiamo accettare questo punto di vista e chiudere il discorso.

In questo calderone in cui tutto è salvo in forza di tale diritto può, allora, entrare di tutto.

Questo calderone – in cui si potrebbe aprire la questione infinita e burlesca su ciò che è arte e ciò che non è arte – potrebbe contenere di tutto: artisti impegnati che vogliono stimolare alla lotta politica, artisti disimpegnati che vogliono spingere al puro trastullo ed al divertimento, artisti che incitano alla lotta controllo il terrorismo o all’antisemitismo, artisti che incitano alla camorra ed alle mafie, artisti che non hanno nulla da dire e vendono dischi a palate.

Ma possiamo anche riflettere pensando al fatto che, almeno nel nostro sistema costituzionale, non esiste un diritto inaffievolibile e, come tale sotratto alla bilanciabilità con altre esigenze ed altre posizioni giuridiche.

Il problema, a parer mio, non può essere posto però solo a livello giuridico perché esso è anche un problema etico ed impone di riflettere anche sulla fonte e sull'origine dell'azione artistica; tema troppo complesso e troppo lungo da sintetizzare.

E, tuttavia, se in termini banali diciamo che l'arte è, in primo luogo, come molti sostengono, una forma di comunicazione o un tentativo "diverso" di comunicare si apre la questione necessaria del destinatario. Chi è il destinatario dell'azione artistica? L'artista potrebbe dire: "A me la questione non interessa perché la platea d'ascolto è indifferenziata e, dunque, non è il punto stabilire a chi parla l'artista bensì cosa dice".

Ma la questione, anche in tal caso, non cambia. Perché "cosa dice" ed "a chi lo dice" sono entrambe questioni che si collocano sul piano della destinazione dell'azione artistica: l'azione artistica si rivolge a ciò che esiste ed a ciò che esisterà. Cioè si rivolge agli esseri umani (e, in generale, al mondo) esistenti oggi e si rivolge agli esseri umani di domani o dei prossimi secoli.

L'artista, in altre parole, a mio modo di vedere, non è mai solo e proprio perché pensare l'arte come condizione di solitudine è una contraddizione al concetto stesso di azione artistica che è, in sé, mirata a condividere e comunicare, in particolare creando ed inventando nuove ed infinite modalità di comunicazione e di produzione di contatti.

Se allora accettiamo l'idea che questo "contatto" o questo "bisogno di contatto" è un motore propulsivo del senso dell'arte dobbiamo pensare alla possibilità che esiste un problema di responsabilità dell'artista ed immaginare che, in qualche modo, l'artista - nella stessa misura in cui opera per il bene della verità in forza della quale aspira ad ottenere la libertà espressiva che merita - assume anche su di sé il dovere di considerare l'altra sponda della comunicazione, cioè il mondo e gli esseri umani.

La responsabilità dell'artista è, dunque, nella scelta circa ciò che, attraverso la propria opera, "merita" di esistere nel mondo e ciò che - dal suo punto di vista - non lo merita.

Un pò come Mastro Geppetto che dà vita al burattino di legno l'artista ha la possibilità di decidere ciò che - tramite le sue mani e le sue idee - avrà vita propria nel mondo e camminerà in futuro con le sue gambe, distaccandosi da lui.

Ed allora mi viene in mente l'unica scena decente del film di Sorrentino "This must be the place" quando il protagonista si reca, come ogni giorno, sulla tomba di un fan che si è ucciso ed attribuisce - anche in forza delle accuse dei genitori di quello - a sè stesso ed ai propri testi un pò "decadenti" la responsabilità della sua morte.

Questa storia è certamente un paradosso perché le persone tendenti alla depressione sono milioni nel mondo e sarebbe pericoloso attribuire direttamente alla musica i suicidi di tante persone. Ci sono cause precise alla depressione; addirittura alcuni studi mostrano che perfino lo stress della madre durante la gravidanza può agevolare nel bambino l'attitudine a dipendenze e disturbi depressivi futuri.

Tuttavia, proprio perché il fruitore dell'opera d'arte può essere chiunque - seppure non si possa chiedere all'artista di condizionare la propria azione secondo l'idea di un pubblico immaturo e non pronto all'ascolto (sarebbe paternalista ed anche fascista) - si può però ambire ad un mondo artistico pienamente consapevole dell'importanza degli effetti della propria azione sul mondo circostante che, in definitiva, resta sia l’utente sia il vero oggetto dell’azione artistica.

Ogni piccolo gesto porta potenzialmente una reazione causale enorme.

Se gli artisti avessero chiara l'importanza (molti ce l’hanno, tanti altri non ne se ne curano a torto) che l'arte, in realtà, riveste nella vita della gente, di tutta la gente, avrebbero anche chiara e netta la possibilità con la propria azione di portare - nei limiti del possibile e di punti di vista comunque relativi - qualcosa di "buono" e di "positivo" nella vita della gente.

Ho ascoltato per anni ed adoro gruppi come i Nirvana i cui testi spesso mostrano un rapporto tormentato con l'essere ed il continuare ad essere. E mi hanno anche aiutato a capire molte cose di me stesso però penso oggi, a trent'anni, che Kurt Cobain avesse torto perchè con la sua musica, continuando a vivere, forse avrebbe cambiato qualcosa e forse anche la sua vita sarebbe stata migliore se avesse capito realmente - oltre i suoi problemi - l'importanza della sua musica per il mondo. Avrebbe forse lasciato segni diversi nella storia delle persone che lo ascoltavano. Ed invece con il suo suicido (legato ovviamente ai suoi motivi personali e non sindacabili) è solo passata l'idea che la sua musica sia una musica per depressi che vogliono farla finita con il mondo. E penso che fosse proprio quello che lui voleva, alla fine.

Ma a me tutto questo non piace. Penso che la letteratura, la musica, le arte visive, si trovino sul filo sottile di quelli che possono rendere il mondo un posto migliore, più evoluto e libero dove vivere, e quelli che invece non sono interessati a nulla se non a sé stessi ed ai propri problemi.

Forse una canzone triste può parlare di un problema ed aiutare la gente a capire.

Ma perché moltissime canzoni devono essere solo tristi e parlare di quello che nella vita non funziona? Perché una canzone non può essere bella senza dire che tutto è una merda, che non sappiamo dove andare, che dobbiamo morire presto, che è bello drogarsi, che la famiglia fa schifo e che il dolore è l'unica sensazione che fa sentire l'essere umano vivo?

Perché non possiamo volere dagli artisti messaggi positivi, di lotta, di reazione, di volontà, di attaccamento a tutte le bellezze della vita soprattutto in un mondo che cerca in ogni modo di indebolire fisicamente e mentalmente le persone per renderle vulnerabili, passive e, quindi, dominabili?

Ho sempre creduto che una società fatta di persone con tante dipendenze (alcol, droghe etc.) sia una società che fa molto comodo a chi governa perché annulla la capacità di dissenso e la forza critica ed aumenta la possibilità per le case farmaceutiche e le multinazionali delle sigarette di fare miliardi.

Una società fatta di persone ottimiste e pronte alla critica fa male al potere perché le persone così possono associarsi e combattere anziché deprimersi o suicidarsi.

L’arte è sul filo sottile di chi lotta e di chi spinge a non lottare proprio.

Ci sono artisti – parlo della musica soprattutto – che sentono questo tipo di responsabilità e – ferme le esigenze commerciali che ci sono dietro ogni produzione discografica – provano, in mezzo alle mode ed ai costumi, a lanciare messaggi ed idee con molta onestà. E lo fanno proprio perché sono consapevoli della potenza comunicativa dell’espressione artistica.

L'artista, per me, dovrebbe lanciare – magari con livelli e forme ovviamente diverse - un messaggio di rivolta, di ribellione, di speranza, di libertà, di novità.

Dovrebbe far vedere che l'arte è più forte di tutto, è la cosa più grande ed eterna che esiste e che nessun limite umano naturale (la fine della vita ed il tempo) o artificiale (le banche, le guerre, le nazioni) possono fiaccarla.

Guccini nella stessa canzone in cui diceva che Dio era morto riusciva anche a dire che Dio è risorto e che le generazioni future sarebbero state pronte per cambiare.

Certamente un cantante come Vasco Brondi, nell’attuale scena musicale italiana, ha il grande merito di descrivere in maniera assolutamente commovente la realtà tremenda e precaria in cui viviamo e lo fa in maniera delicata ed innovativa, spiegando che le persone continuano ad amarsi nonostante tutto.

Ma non servirebbe anche qualcuno che dicesse che le cose invece vanno bene lo stesso perchè siamo vivi e viviamo una volta sola e questo, in fondo, è quello che conta veramente?

Che dicesse che comunque la vita è bella proprio perché è unica e che è bello vedere un albero, vedere il mare, vedere le persone che amiamo e conoscere popoli nuovi e scoprire nuovi animali ed innamorarsi e fare l'amore dieci volte al giorno?

Ognuno poi lo direbbe, ovviamente, a modo proprio e secondo le frequenze musicali che predilige.

E fanculo alla crisi ed a quelli che sanno solo parlare della crisi.